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Caporalato: misure di prevenzione e strumenti a tutela del datore

Analizziamo, in tema di delitto di caporalato, gli interventi previsti dalla legge per arginare i fenomeni illeciti e le attenzioni che l’azienda deve avere per evitare di trovarsi coinvolta, anche quale soggetto terzo ed estraneo

Il caporalato e la somministrazione

Di grande attualità è il tema del Caporalato e delle misure di prevenzione attuate nell’ambito del delitto sanzionato dall’art. 603 bis del codice penale. Questo anche grazie alle inchieste portate avanti dalla Procura di Milano, che hanno interessato nel corso degli ultimi due anni, dapprima le grandi aziende del trasporto e della logistica, poi i big della Grande Distribuzione Organizzata e ultimamente il settore della Moda. La norma, approvata inizialmente per tutelare i casi di gravi abusi e il sistematico sfruttamento perpetrati a danno di personale (prevalentemente extracomunitario o comunque in condizioni di disagio economico e culturale) impiegato nelle campagne del mezzogiorno nella raccolta degli ortaggi, è stata, in tempi recenti, mutuata al fine di colpire i fenomeni di irregolarità negli appalti, nell’abito del sistema di terziarizzazione delle attività produttive utilizzato, soprattutto nel Nord Italia, sin dall’inizio degli anni ‘80. Sistema di terziarizzazione basato prevalentemente sul mondo della cooperazione e che ha subito nel corso degli ultimi 20 anni una radicale trasformazione, da un lato, a seguito dell’ abrogazione delle agevolazioni in precedenza previste per il settore delle cooperative (L. 602/1970) e dall’altro dall’incremento delle tutele previste per il personale dipendente delle stesse, nonché, a causa dei frequenti abusi perpetrati nello specifico settore e finalizzati ad ottenere degli illegittimi vantaggi contributivi. Sistema che forse ha segnato il passo, senza però che ancora si sia ben sviluppata una vera e propria alternativa che consenta all’impresa di coniugare adeguatamente la flessibilità produttiva con una giusta tutela del lavoro e dei lavoratori.

In questo contesto si inseriscono le inchieste recentemente portate avanti dalla Procura di Milano che, applicando le disposizioni di cui all’art. 603 bis del codice penale, nate come già detto per colpire i fenomeni di caporalato selvaggio delle campagne del sud Italia, sono intervenute nell’ambito degli appalti facendo uso delle misure di prevenzione previste dall’art. 34, D.Lgs. 159/2011, sino alla introduzione di una sorta di commissariamento rieducativo per le imprese non direttamente coinvolte nella contestazione del relativo reato, ma nei cui confronti viene rimproverata una colposa agevolazione del comportamento assunto dagli effettivi indagati. Si tratta di una forma di commissariamento parzialmente diversa da quella utilizzata nell’ambito di indagini sulla criminalità organizzata. Un commissariamento che può essere definito soft, ovvero, non finalizzato alla gestione dell’impresa da parte del commissario giudiziario, ma rivolto esclusivamente alla gestione dell’appalto o della terziarizzazione in altra forma ed incentrato ad adottare o far adottare all’impresa coinvolta i necessari accorgimenti per controllare efficacemente la filiera produttiva, evitando fenomeni di sfruttamento.

Rispetto alla utilizzabilità di tali strumenti giuridici nell’ambito di indagini non direttamente connesse con il fenomeno mafioso ed agli evidenti risvolti sotto il profilo della legittimità costituzionale, si rimanda a successivi approfondimenti, attesa la complessità della questione, limitandosi la presente disamina ad una più semplice analisi delle modalità di applicazione di tali misure nell’ambito degli appalti e del fenomeno del Caporalato.

L’art. 34 del D.Lgs. 159/2011 e le misure di prevenzione

Le misure previste dall’articolo 34, commi 1 e 2, D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, seppur applicate, nei casi più recenti, con una approccio non eccessivamente aggressivo (in effetti i commissariamenti effettuati, sembrerebbero finalizzati non tanto a gestire l’attività imprenditoriale nel suo complesso, ma esclusivamente alla gestione dell’attività di terziarizzazione ed alla predisposizione di modelli organizzativi ai sensi del d. lgs 231/01 e la presenza di sistemi di internal audit che consentano una adeguata sorveglianza della catena degli appalti, allo scopo di impedire e prevenire fenomeni di sfruttamento) sono comunque misure particolarmente invasive, non basate su giudizio definitivo, ma applicate nell’ambito di provvedimenti cautelari, a soggetti non direttamente indagati

Misure che comunque hanno un impatto notevole sulla vita aziendale. A prescindere dagli aspetti che possono riguardare delle interpretazioni costituzionalmente orientate della norma e connessi con l’applicazione di disposizioni speciali, nate per colpire il fenomeno mafioso, le quali intervengono su diritti costituzionalmente garantiti, questione che non verrà trattata in questa sede, è importante comunque che l’applicazione delle stesse sia anticipata, quantomeno da una attenta disamina del reato presupposto, ovvero dal reato di caporalato. Esso, infatti, non si verifica ogni qualvolta nell’ambito dell’appalto si possa riscontrare una somministrazione irregolare o una violazione contributiva o fiscale, ma dovrebbe intervenire, secondo la norma, esclusivamente laddove si realizzi un vero e proprio sfruttamento di lavoratori.

ARTICOLO 603-BIS DEL CODICE PENALE – INTERMEDIAZIONE ILLECITA E SFRUTTAMENTO DEL LAVORO

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro.

Art. 603 bis c.p. ed il reato di caporalato

Dalla lettura dell’art. 603-bis del Codice penale si può evincere che non integra la fattispecie di reato la mera attività di intermediazione di manodopera, già sanzionata dal DL 19/2024, anch’essa fattispecie penale dal marzo 2024, ma che prevede la sanzione dell’arresto sino ad un mese o dell’ammenda di 60 euro per ogni giorno lavorato per ogni lavoratore interessato. Disposizione che interviene ogni volta che viene effettuata una mera fornitura di prestazioni di manodopera da soggetto non autorizzato ed a prescindere dallo schema negoziale adottato. L’art. 603 bis, invece, interviene nei casi in cui la situazione di somministrazione irregolare è accompagnata ad un fenomeno di sfruttamento del lavoratore. In verità, la più recente giurisprudenza parrebbe fare scattare la fattispecie di reato ogni qual volta si utilizzi manodopera in qualsiasi forma, in condizioni di sfruttamento. Diviene fondamentale, pertanto, delineare quelli che potrebbero essere gli abusi e le concrete condizioni di sfruttamento del lavoratore. Riguardo a detto aspetto, la norma costringe gli interpreti a fare una parallela applicazione delle disposizioni penali e dei principi generali che le sorreggono (anche in termini interpretativi) con le disposizioni giuslavoristiche. Tenendo conto che l’interpretazione delle disposizioni nelle due materie, soggiace a due principi radicalmente contrapposti, da un lato il favor prestatoris, applicato generalmente nella interpretazione della norma del lavoro e della contrattazione collettiva e dall’altro il favor rei applicato nelle disposizioni penali, che, nel caso di specie, ad avviso di chi scrive, dovrebbe prevalere, anche perché espressamente previsto dalla Carta Costituzionale. Il richiamato art. 603 bis elenca degli indici di sfruttamento da tenere in considerazione ai fini dell’applicazione della norma. Nella identificazione di detti indici e nella diversa valutazione degli stessi si pone un serio problema di interpretazione. In assenza di chiarimenti da parte del legislatore o da parte della giurisprudenza, la disposizione assume un livello aleatorietà, che può ritenersi accettabile nelle disposizioni giuslavoristiche, ma diviene inaccettabile quando si tratta di applicazione di norme penali. Atteso che la norma, secondo l’interpretazione che attualmente ne sta facendo parte della giurisprudenza, troverebbe applicazione indipendentemente dal fenomeno interpositorio, essa dovrebbe applicarsi in ogni situazione definita di “sfruttamento della manodopera”. Ovviamente se ci troviamo in situazioni in cui il lavoratore viene pagato 3 euro l’ora davanti ad una normale retribuzione di 20 euro, non vi sono dubbi. Ma laddove la differenza sia limitata ad alcuni istituti contrattuali, riconosciuti da alcuni contratti e non da altri, oppure, in caso di mancato riconoscimenti di straordinari, ci troviamo dinanzi ad un normale contenzioso datore di lavoro e lavoratore da risolvere in sedi civilistiche o dinanzi ad una fattispecie penale che addirittura porta all’applicazione, anche in questo caso, a fronte di una applicazione estensiva, delle misure di prevenzione sorte per contrastare il fenomeno mafioso? Vi sono alcune fattispecie di violazioni in materia di sicurezza sul lavoro previste dal D.Lgs. 81/2008 che sono sanzionate in via contravvenzionale e che vengono convertite in sanzione amministrativa a fronte dell’ottemperanza alla prescrizione, in alcuni casi per incorrere in una prescrizione di questo tipo è sufficiente che venga trovata in un cantiere una scala della misura sbagliata, magari inutilizzata. E’ evidente che, a fronte di una norma penale così grave e per applicare le misure di prevenzione, fermi restando i dubbi sulla legittimità costituzionale, deve essere utilizzata molta prudenza. Prudenza da adottare, certamente nell’applicare i vari provvedimenti cautelari, ma anche nel valutare le risultanze stessi verbali ispettivi, atteso che gli operanti sono abituati ad effettuare gli accertamenti e le proprie valutazioni e conclusioni quasi esclusivamente dal punto di vista giuslavoristico e puntando ad un recupero contributivo. Per far meglio comprendere, all’interno dei verbali emessi dal servizio ispettivo dell’Ispettorato del Lavoro, una delle contestazioni più frequenti, nei confronti delle aziende che sono oggetto di sanzioni, è rappresentato dall’utilizzo di contratti collettivi non sottoscritti da associazioni sindacali comparativamente più rappresentativa, contestualmente all’utilizzo sovrabbondante e spesso non giustificato di indennità di trasferta. Quest’ultima esente dal punto di vista fiscale e contributivo. Se le trasferte non sono effettive o effettivamente giustificate, deve essere contestata una evasione contributiva e fiscale, ma non si realizza una ipotesi di sfruttamento del lavoratore. Ciò in quanto l’indennità di trasferta, riqualificata come retribuzione, colma, di fatto, il gap tra il contratto collettivo utilizzato dal sanzionato e quello richiesto dal servizio Ispettivo. Anzi, essendo le somme liquidate a titolo di indennità di trasferta nette, molto probabilmente il lavoratore avrà percepito un importo netto addirittura superiore a quello che gli sarebbe spettato a fronte della normale applicazione del contratto collettivo di settore. Ciononostante, anche allo scopo di massimizzare l’introito contributivo, vi è la tendenza da parte degli Enti ispettivi di contestare sia la riqualificazione delle trasferte che il mancato rispetto del CCNL ritenuto applicabile, con emissione di diffide tecniche accertative. La conseguenza è che il predetto verbale, letto in modo acritico, potrebbe fare emergere un fenomeno di sfruttamento nella realtà non esistente. Le poche sentenze emesse al momento sull’argomento hanno comunque evidenziato come la condizione di sfruttamento debba essere concretamente accertata e valutata nell’ambito del caso specifico.

ARTICOLO 34, COMMI 1 E 2, D.LGS. 6 SETTEMBRE 2011, N. 159

  1. Quando, a seguito degli accertamenti di cui all’articolo 19 o di quelli compiuti per verificare i pericoli di infiltrazione mafiosa, previsti dall’articolo 92, ovvero di quelli compiuti ai sensi dell’articolo 213 del codice dei contratti pubblici, di cui al decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50, dall’Autorità nazionale anticorruzione, sussistono sufficienti indizi per ritenere che il libero esercizio di determinate attività economiche, comprese quelle di carattere imprenditoriale, sia direttamente o indirettamente sottoposto alle condizioni di intimidazione o di assoggettamento previste dall’articolo 416-bis del codice penale o possa comunque agevolare l’attività di persone nei confronti delle quali è stata proposta o applicata una delle misure di prevenzione personale o patrimoniale previste dagli articoli 6 e 24 del presente decreto, ovvero di persone sottoposte a procedimento penale per taluno dei delitti di cui all’articolo 4, comma 1, lettere a), b) e i-bis), del presente decreto, ovvero per i delitti di cui agli articoli 603-bis, 629, 644, 648-bis e 648-ter del codice penale, e non ricorrono i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniali di cui al capo I del presente titolo, il tribunale competente per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti delle persone sopraindicate dispone l’amministrazione giudiziaria delle aziende o dei beni utilizzabili, direttamente o indirettamente, per lo svolgimento delle predette attività economiche, su proposta dei soggetti di cui al comma 1 dell’articolo 17 del presente decreto.
  2. L’amministrazione giudiziaria dei beni è adottata per un periodo non superiore a un anno e può essere prorogata di ulteriori sei mesi per un periodo comunque non superiore complessivamente a due anni, a richiesta del pubblico ministero o d’ufficio, a seguito di relazione dell’amministratore giudiziario che evidenzi la necessità di completare il programma di sostegno e di aiuto alle imprese amministrate e la rimozione delle situazioni di fatto e di diritto che avevano determinato la misura.

La posizione espressa dal Tribunale di Milano

Nel contesto su esposto si collocano le recenti pronunce espresse dal Tribunale di Milano nell’ambito delle indagini in corso relative al fenomeno del Caporalato nel settore della Moda (Tribunale di Milano, decreto 15 gennaio 2024, n. 1/24 e decreto 6 giugno 2024, n. 12/24)

In particolare, rispetto all’applicazione delle misure di prevenzione di cui al richiamato art. 34 D.Lgs. 159/2011, il Tribunale conferma l’applicabilità, a suo avviso, delle richiamate misure anche a soggetti terzi estranei alla contestazione del reato, ma che abbiano mediante una condotta, anche meramente colposa o finanche lecita, agevolato il soggetto indagato nel compimento del reato.

In particolare, il Tribunale ritiene applicabile la misura della amministrazione giudiziaria nei confronti del terzo, chiarendo che essa deve essere condotta e deve intendersi non come “repressiva” ma come “preventiva” cioè non rivolta a punire l’imprenditore, ma a rivolta semplicemente a contrastare a contaminazione antigiuridica delle imprese sane. Sul piano del profilo soggettivo per l’applicazione della misura di prevenzione, il Tribunale ha ritenuto sufficiente la colpa, ovvero, che la condotta agevolatrice sia rappresentata dalla assenza di modelli organizzativi e di un Internal Audit che abbiano di fatto colposamente agevolato la condotta criminale del soggetto effettivamente indagato. È evidente che la questione trattata, in via cautelare, pone dei problemi di costituzionalità sotto molteplici aspetti e che certamente nel corso dell’evoluzione giurisprudenziale verranno affrontati.

Quello che rileva, però, in questa sede, è delineare quali possano essere gli interventi che può effettuare lo Stato, per arginare i fenomeni illeciti, senza incidere eccessivamente sull’andamento dell’impresa e quali accorgimenti una azienda possa mettere in atto per evitare di trovarsi coinvolta, anche quale soggetto terzo ed estraneo, in provvedimenti quali quelli su esposti.

Relativamente alla prima questione, atteso che l’effetto mediatico di tali provvedimenti, spesso comporta per l’attività d’impresa un danno maggiore rispetto alla vera e propria amministrazione giudiziaria, si potrebbe anticipare e prevenire l’intervento dell’autorità giudiziaria, tramite l’utilizzo dell’istituto della prescrizione prevista dal D.Lgs. 124/04 e da D.Lgs. 81/08. Dando all’impresa coinvolta un termine per adempiere e solo in caso di mancato adempimento, ricorrere al provvedimento dell’autorità giudiziaria. Lato impresa, invece, può essere attivato un sistema di monitoraggio della catena degli appalti e delle modalità di gestione degli stessi. Riguardo a questo aspetto, un ottimo sistema, peraltro già previsto dalla normativa, è rappresentato dalla Certificazione dei Contratti e dalla verifica degli appalti da parte di Commissioni di Certificazione. Infatti, se pur la certificazione non abbia un effetto diretto in materia penale, limitandosi l’efficacia della stessa al campo giuslavoristico, assicurativo, previdenziale e fiscale, essa ha un effetto indiretto ai fini della valutazione dell’elemento soggettivo del reato. In quanto, allo stato, la certificazione del contratto di appalto da parte di un ente terzo ed appositamente autorizzato, costituisce il miglior sistema di monitoraggio codificato e normato attualmente esistente, in materia di appalti.

La certificazione dei contratti di appalto

La Certificazione del Contratto è uno strumento giuridico che introdotto dal D.Lgs. 276/2003 art. da 72 ad 80, in più occasioni “ritoccato”, per renderlo più efficacie e favorirne l’utilizzo. Detta procedura prevede la possibilità di certificare i contratti di lavoro o di appalto da parte di soggetti terzi e la cui competenza viene garantita da specifico riconoscimento disposto dal Ministero del Lavoro. Essa viene effettuata per prevenire o ridurre i contenziosi relativi alla qualificazione del rapporto di lavoro e dei contratti di lavoro e la rispondenza degli stessi alle previsioni di legge, in modo che non possano sorgere contestazioni in merito alla natura del rapporto instaurato, rendendo opponibili, inter partes e verso i terzi, ai fini civilistici, fiscali assicurativi e previdenziali, la qualificazione e il contenuto del contratto.

La norma, ovviamente, prevede la possibilità dei terzi di impugnare la predetta certificazione in sede giudiziale. La procedura di impugnazione prevede, però, che, in caso di impugnazione del contratto certificato, vi sia l’obbligo di esperire preventivamente un tentativo di conciliazione avanti all’ente certificatore e solo successivamente si possa procedere giudizialmente, chiedendo l’accertamento della non rispondenza tra il contratto certificato e l’effettivo rapporto instaurato. Restando, però, il contratto certificato opponibile alle parti ed ai terzi sino alla pronuncia di primo grado del giudice, la predetta certificazione dovrebbe altresì comportare l’applicazione dell’onere della prova in capo al soggetto che intenda contestare la natura del contratto certificato. Tra gli enti certificatori, vi sono Fondazioni Universitarie, Direzioni Provinciali del Lavoro, Ordini dei Consulenti del Lavoro. Organi certamente qualificati ad effettuare una verifica preventiva sul contratto e sull’organizzazione del lavoro sottesa al contratto stesso.

Addirittura il Tribunale di Roma ha affermato che “La Certificazione non è, dunque, solo la mera ricognizione volta all’acclaramento di un fatto, ma è anche l’accertamento ufficiale di esistenza di una qualità. In questo senso la certificazione non è un atto meccanico, automatico e pedissequo, ma importa un giudizio valutativo di conformità ad uno schema legale. E’ proprio per questa ragione che le certificazioni in linea generale, provengono da soggetti investiti di una funzione istituzionale dall’ordinamento in quanto specificamente controllati ed accreditati. La posizione istituzionale di tali organi garantisce la tendenziale intrinseca esattezza dell’atto certificato, che nasce quindi con un quid pluris rispetto al puro atto di autonomia privata, rendendo l’accertamento stesso tendenzialmente incontestabile. In questa maniera viene perseguito dal sistema l’obbiettivo della certezza pubblica” ritenendo gli Enti certificatori come soggetti destinatari di una funzione rivolta ad assegnare una certezza pubblica al contratto certificato evidenziando come l’Ente Certificatore che ” ..omissis….non solo, nella fase della stipula, ha avuto piena cognizione degli interessi reali delle parti, ma il medesimo ha anche avvallato il risultato finale di tipo formale e in cui è stato recepito l’assetto contrattuale proposto dalle parti, cui è stato recepito assumendosene peraltro la responsabilità. Ciò è tanto vero che una parte della dottrina ha ritenuto che il Certifier sia tenuto a rispondere a titolo extracontrattuale verso le parti, soprattutto nell’evenienza in cui il datore di lavoro, in assoluta buonafede, si sia affidato alle valutazioni ed all’accertamento dell’organo pubblico. Effettivamente, quad essentim l’organismo di certificazione garantisce che, almeno nella fase genetica, il rapporto nasca in modo valido e corretto. Non può peraltro trascurarsi il contributo di informazione e di consulenza tecnico giurdica fornita dal certificatore nella sua attività, anche conciliativa. …omissis….concludendo, sul punto del diritto sostanziale, ad uno sguardo d’insieme, importa qui rimarcare quanto, l’istituto della certificazione tenda ad un importante obiettivo di certezza pubblica, scopo assolutamente apprezzabile in se stesso ed a fortiori se rapportato all’accresciuta complessificazione tecnico giuridica degli schemi contrattuali lavorativi. (In Tal senso Tribunale di Roma – Sez. Lavoro. RG. 14426/2023). A fronte di tali valutazioni, la presenza della certificazione, nell’ambito dei contratti di appalto e di lavoro in cui sia in contestazione una forma di sfruttamento, se pur non produca effetti rispetto alla opponibilità a provvedimenti cautelari di natura penale, fa venire meno quell’elemento soggettivo del reato che necessariamente vi deve essere per originare l’azione penale. Ovviamente, se gli Enti certificatori devono ritenersi investiti di tale ruolo, fondamentale è la genuinità e terzietà dell’operato dell’Ente Certificatore che deve necessariamente essere sottoposto da adeguanti controlli, in termini di legittimità, competenza e democrazia interna.

Il caporalato nelle campagne e il fenomeno migratorio

Un discorso a parte merita il caporalato presente nelle nostre campagne, che nasconde fenomeni di grave sfruttamento. Il sistema del caporalato nelle campagne oltre ad essere colpito con una normativa repressiva, deve essere necessariamente affrontato, con una condotta preventiva, che passa necessariamente da una diversa gestione del fenomeno migratorio modificando la normativa sull’ingresso ed il soggiorno del personale extracomunitario. La vigente normativa sull’immigrazione in Italia è basata su criteri prevalentemente ideologici ed è fallimentare sotto ogni aspetto. Essa rende enormemente lento e difficile l’ingresso lecito e notevolmente più facile l’ingresso illecito del personale extracomunitario. Quanto sopra, combinato poi con una sostanziale assenza di espulsioni effettive, a fronte di persone colpite da provvedimenti di espulsione, trasforma il fenomeno migratorio in un sistema iperproduttivo di illegalità sin dalla sua origine. Un grave errore, l’assenza di controllo sull’immigrazione, essendo l’Italia un paese che, a causa dell’inverno demografico, avrebbe un fondamente bisogno di immigrazione lecita. Una adeguata gestione del fenomeno migratorio scevra di preconcetti ideologici rappresenta un elemento fondamentale per il futuro del paese e dell’Europa stessa. L’attuale sistema delle quote con a presenza del “Click Day” si presta certamente ad abusi in partenza, atteso che ben poche aziende serie, sono disponibili a sottoporsi a questa lotteria dei lavoratori. Modalità che si può dunque prestare facilmente al mercimonio delle richieste. Ancor più dannoso è lasciare, di fatto, sul territorio dello Stato, lavoratori che siano stati oggetto di revoca di provvedimento di soggiorno o di espulsione o che siano privi del permesso di soggiorno. Infatti, un lavoratore che abbia subito un tale provvedimento, si trova privato della possibilità di stipulare un contratto di locazione, di avere una assistenza sanitaria continuativa e di un lavoro regolare. Lasciarlo nel territorio dello Stato vuol dire necessariamente destinarlo alla criminalità o farlo diventare vittima di sfruttatori di ogni genere. Una condotta repressiva deve essere attuata, ma non è certamente sufficiente per arginare il fenomeno. Sicuramente va eliminato il sistema delle quote, garantendo l’ingresso in tempi rapidi alle aziende che fanno richiesta in qualsiasi momento. Si potrebbe pensare, ad esempio, ad uno Stato intermediario “lecito” che si ponga effettivamente ed efficacemente tra la domande e l’offerta di lavoro. Ugualmente efficaci e rapide, ovviamente, devono essere espulsioni. In generale di soluzioni possono esservene molte, ma passano tutte da una volontà effettiva di affrontare seriamente il problema, senza farne una bandiera ideologica. Dalla soluzione di questo problema passa il futuro della Vecchia Europa molto più che dall’auto elettrica o dalla mobilità sostenibile.

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