AGENZIA DELLE ENTRATE – Circolare 18 agosto 2023, n. 25/E Profili fiscali del lavoro da remoto (c.d. smartworking) – Novità introdotte dalla legge 13 giugno 2023 n. 83
Profili fiscali del lavoro da remoto (c.d. smartworking)
1 Residenza fiscale e smartworking
1.1 La residenza ai sensi dell’articolo 2 del TUIR
1.2 La residenza dei lavoratori da remoto nell’ordinamento interno
- Regimi speciali applicabili in caso di svolgimento dell’attività lavorativa in Italia
- I trasferimenti fittizi di residenza all’estero
- Applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni
4.1 La residenza fiscale nella normativa convenzionale
4.2 Applicazione delle Convenzioni allo smartworking
4.2.1 Redditi di lavoro dipendente
4.2.2 Lo smartworking nel periodo emergenziale causato dall’epidemia da Covid-19
4.3 Stabile organizzazione e base fissa
Dopo l’accelerazione della diffusione dovuta al periodo dell’emergenza pandemica, peraltro, queste modalità di lavoro “agile” o “flessibile”, sono divenute o si avviano a diventare – in determinati settori – modalità “ordinarie” di svolgimento della prestazione lavorativa. Di conseguenza, particolarmente rilevante appare l’individuazione dei profili fiscali legati al fenomeno di c.d. “mobility of work”.
La circolare fornisce chiarimenti e istruzioni applicative sui profili fiscali del lavoro da remoto (c.d. smartworking), focalizzando l’attenzione sui più recenti orientamenti della prassi sul punto, anche ai fini dell’applicazione dei regimi agevolativi rivolti alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia per svolgere un’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano, disciplinati dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. «regime speciale per lavoratori impatriati»), nonché dall’articolo 44 del decreto legge 31 maggio 2010, n. 78 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 («regime speciale per docenti e ricercatori»).
La ciriolare è costituita anche da una seconda parte che invece, è dedicata alla speciale disciplina concernente i lavoratori “frontalieri”, alla luce anche dei recenti sviluppi e del nuovo Accordo internazionale siglato con la Svizzera, e delle novità introdotte dalla relativa legge di ratifica (legge 13 giugno 2023 n. 83, pubblicata nella G.U. n. 151 del 30 giugno 2023), di cui ci occuperemo in seguito.
1 Residenza fiscale e smartworking
1.1 La residenza ai sensi dell’articolo 2 del TUIR
L’articolo 2, comma 2, del Testo Unico delle Imposte sui Redditi approvato con D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (di seguito anche “TUIR”) introduce e disciplina il concetto di “residenza fiscale”. In particolare, alla luce della disposizione citata, si considerano residenti in Italia le persone fisiche che, per la maggior parte del periodo d’imposta (ossia 183 giorni in un anno, o 184 giorni in caso di anno bisestile):
– sono iscritte nelle anagrafi della popolazione residente;
– hanno nel territorio dello Stato italiano il proprio domicilio;
– hanno nel territorio dello Stato italiano la propria residenza.
Tali condizioni sono tra loro alternative, con la conseguenza che anche la sussistenza di una sola delle stesse è sufficiente a radicare la residenza di una persona nel territorio dello Stato.
L’alternatività dei criteri, oltre ad essere stata confermata dalla giurisprudenza di legittimità (si vedano, al riguardo, Corte di Cassazione, sez. V, sentenza n. 21970 del 28 ottobre 2015, secondo la quale, ai fini delle imposte dirette, le persone iscritte nelle anagrafi della popolazione residente si considerano “in ogni caso residenti, e pertanto soggetti passivi d’imposta, in Italia”; Corte di Cassazione, sez. V, sentenza n. 677 del 16 gennaio 2015), è stata ribadita in numerosi pareri resi a istanze di interpello, le cui risposte sono pubblicate sul sito internet dell’Agenzia (NOTA 1).
Al riguardo, si osserva che l’accertamento dei presupposti per stabilire la residenza, diversi dal dato formale dell’iscrizione anagrafica, presuppone un riscontro fattuale da eseguirsi caso per caso, al fine di una concreta ponderazione degli elementi che consentono di verificare il luogo di domicilio o di residenza come definiti in base alla normativa civilistica (cfr. circolare 1° aprile 2016 n. 9/E).
Nonostante la valenza tributaria, infatti, le nozioni richiamate dall’articolo 2 del TUIR vanno intese, per espressa previsione normativa, ai sensi della disciplina contenuta nel codice civile che, all’articolo 43, definisce il domicilio come il luogo in cui la persona ha stabilito la sede principale dei suoi affari e interessi e fa coincidere la dimora abituale con il luogo di residenza.
In particolare, come chiarito già nella circolare ministeriale 2 dicembre 1997, n. 304, per configurare la residenza non è necessaria la continuità o definitività della dimora abituale, con la conseguenza che periodi anche prolungati di assenza non ne escludono il radicamento in Italia. In merito al domicilio, occorre tenere conto anche dei rapporti di natura non patrimoniale, come quelli personali e affettivi, per considerare localizzato in Italia il centro degli affari e degli interessi.
Tali indicazioni sono state recepite e sviluppate dalla giurisprudenza di legittimità, che, in merito al concetto di domicilio, ha chiarito come lo stesso debba essere inteso quale sede principale degli affari ed interessi economici nonché delle relazioni personali, come desumibile da elementi presuntivi (Cass. 8 ottobre 2020, n. 21694; Cass.15 giugno 2010, n. 14434; Cass. 7 novembre 2001, n. 13803). Il concetto di domicilio va valutato, quindi, in relazione al luogo in cui la persona intrattiene sia i rapporti personali che quelli economici (Cass., SS.UU., 29 novembre 2006 n. 25275; recentemente, anche Cass. 14 maggio 2021, n. 14240), dovendo il concetto di interessi, in contrapposizione a quello di affari, intendersi comprensivo anche degli interessi personali (Cass. 1° marzo 2019, n. 6081; Cass. 29 dicembre 2011, n. 29576). Secondo l’elaborazione della giurisprudenza si tratta di una situazione di fatto che presuppone l’esistenza di un duplice requisito, oggettivo e soggettivo, vale a dire, rispettivamente, la permanenza in un determinato luogo e l’intenzione di abitarvi in modo stabile, rivelata dalle consuetudini di vita e dallo svolgimento delle normali relazioni sociali (tra le altre, Cass. n. 25726/2011).
Con riferimento alla dimora abituale, la giurisprudenza di legittimità, riconosciuto che affinché sussista il requisito della “abitualità della dimora” non è necessaria la continuità o la definitività (Cass. n. 2561/1975; Cass. SS.UU. n. 5292/1985), ha chiarito che detto requisito permane anche se il soggetto lavora o svolge altre attività al di fuori del comune di residenza (del territorio dello Stato), purché conservi in esso l’abitazione, vi ritorni quando possibile e mostri l’intenzione di mantenervi il centro delle proprie relazioni familiari e sociali (Cass. n. 1738/1986, richiamata dalla più recente Cass. n. 25726/2011). La residenza, dunque, non viene meno per assenze più o meno prolungate, dovute alle particolari esigenze della vita moderna, quali ragioni di studio, di lavoro, di cura o di svago (Cass. n. 435/1973). Più recentemente, i giudici di legittimità hanno altresì precisato che “il centro principale degli interessi vitali del soggetto va individuato dando prevalenza al luogo in cui la gestione di detti interessi viene esercitata abitualmente in modo riconoscibile da terzi” (Cass. n. 25189/2022, che richiama Cass. n. 6501/2015).
In base alla previsione recata dall’articolo 3, comma 1, del TUIR, le persone residenti in Italia devono sottoporre ad imposizione nel nostro Paese tutti i loro redditi, ovunque prodotti (c.d. worldwide taxation principle).
Ai non residenti, invece, si applicano le disposizioni dell’articolo 23 del TUIR e gli stessi saranno assoggettati a imposizione in Italia sulla base dei criteri di territorialità indicati nel predetto articolo.
Il comma 2-bis dell’articolo 2 del TUIR introduce, infine, una presunzione relativa di residenza fiscale; in particolare, salvo prova contraria, si considerano residenti in Italia le persone cancellate dall’anagrafe della popolazione residente in Italia e trasferite in Stati o territori a regime fiscale privilegiato individuati nel decreto del Ministro delle Finanze del 4 maggio 1999.
Il menzionato comma 2-bis è stato introdotto dall’articolo 10 della legge 23 dicembre 1998, n. 448, al fine di contrastare il fenomeno della frequente migrazione fittizia verso Paesi a fiscalità privilegiata.
Come è stato chiarito dalla circolare 24 giugno 1999, n. 140, la modifica normativa ha previsto un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, senza incidere sulle circostanze e gli elementi dimostrativi della residenza indicati nella circolare n. 304 del 1997. La predetta circolare del 1999 precisa, quindi, che “soltanto la piena dimostrazione, da parte del contribuente, della perdita di ogni significativo collegamento con lo Stato italiano e la parallela controprova di una reale e duratura localizzazione nel paese fiscalmente privilegiato, indipendentemente dall’assolvimento nello stesso paese di obblighi fiscali, attestano il venire meno della residenza fiscale in Italia e la conseguente legittimità della posizione di non residente”.
Pertanto, anche a seguito della formale iscrizione all’Anagrafe degli Italiani residenti all’estero (di seguito, “AIRE”), nei confronti di cittadini trasferiti in Paesi o territori a fiscalità privilegiata continua a sussistere una presunzione (relativa) di residenza fiscale in Italia per effetto del citato comma 2-bis.
Si evidenzia che per tener conto dell’evoluzione del contesto internazionale, l’elenco recato dal decreto del Ministro delle Finanze del 4 maggio 1999 è stato modificato una prima volta dall’articolo 2 del decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze del 27 luglio 2010 e, successivamente, dall’articolo 1 del decreto sempre del Ministero dell’Economia e delle finanze del 12 febbraio 2014.
Da ultimo, l’articolo 12 della legge 13 giugno 2023, n. 83, ha previsto, al comma 3, che “Alla luce del rafforzamento dei rapporti economici tra la Repubblica italiana e la Confederazione svizzera in virtù della ratifica dell’Accordo relativo all’imposizione dei lavoratori frontalieri, con Protocollo aggiuntivo e Scambio di lettere, fatto a Roma il 23 dicembre 2020, nonché in considerazione delle disposizioni specifiche in materia di scambio di informazioni contenute nell’articolo 7 del suddetto Accordo, con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, da adottare entro trenta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, si provvede all’eliminazione della Svizzera dall’elenco di cui all’articolo 1 del decreto del Ministro delle finanze 4 maggio 1999, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 107 del 10 maggio 1999”.
È stato quindi emanato il decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze del 20 luglio 2023, con cui è stata disposta l’eliminazione della Svizzera dal predetto elenco.
L’efficacia delle modifiche previste dal citato articolo 12, comma 3, decorre, per espressa previsione normativa, dal periodo d’imposta successivo a quello in corso alla data di pubblicazione del suddetto decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze. Sul punto, si rinvia ai chiarimenti contenuti nella Parte Seconda.
1.2 La residenza dei lavoratori da remoto nell’ordinamento interno
Come anticipato in premessa, negli ultimi anni si è assistito a un costante incremento dell’impiego di forme di lavoro definite “agili”, ossia caratterizzate da prestazioni rese in modalità “virtuale”, ovvero da remoto, senza che sia necessaria la presenza fisica nei locali messi a disposizione dal datore di lavoro o, comunque, in un determinato luogo (forme di lavoro che, per semplicità, nel prosieguo della circolare verranno indicate come “smartworking” o lavoro agile, a prescindere dal significato giuslavoristico di tale locuzione).
Si tratta di un fenomeno favorito dal progresso tecnologico e fortemente accelerato dall’emergenza pandemica da Covid-19 che ha costretto la maggioranza dei settori (pubblici e privati) a ridefinire le modalità lavorative.
A fronte di significative revisioni organizzative che hanno coinvolto imprese, professionisti e comparto pubblico, non sono state apportate alla normativa interna modifiche che abbiano inciso sulle regole di determinazione della residenza a fini fiscali.
Di conseguenza, i criteri di radicamento della residenza fiscale delle persone fisiche restano quelli previsti dall’articolo 2 del TUIR (come illustrati nel precedente paragrafo) e non subiscono alcun mutamento per coloro che svolgono un’attività lavorativa in smartworking. In altri termini, le modalità di svolgimento della prestazione lavorativa non incidono sui criteri di determinazione della residenza fiscale, che restano ancorati all’integrazione di almeno una delle suesposte condizioni di cui all’articolo 2 del TUIR.
Di seguito, si forniscono alcune esemplificazioni per chiarire meglio le implicazioni conseguenti alla configurazione della residenza in Italia, fatto salvo quanto sarà successivamente precisato rispetto all’applicazione di un’eventuale Convenzione contro le doppie imposizioni.
Si ipotizzi, ad esempio, il caso di un cittadino straniero, non iscritto nelle anagrafi della popolazione residente, che lavora dall’Italia in smartworking per un datore di lavoro estero, permanendo per la maggior parte dell’anno solare presso un’abitazione ubicata nel nostro Stato unitamente al coniuge e ai figli. In tale circostanza, sebbene non risulti soddisfatto il requisito formale di iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente, non si può non considerare che per la maggior parte del periodo d’imposta il cittadino estero mantiene stabilmente nel territorio dello Stato la sede principale dei suoi rapporti personali e affettivi (familiari) e la sua dimora abituale. Pertanto, considerato che – come anticipato – i criteri previsti dall’articolo 2, comma 2, del TUIR risultano tra loro alternativi, nell’ipotesi di cui sopra, il soggetto avrà radicato la propria residenza fiscale in Italia.
Ancora, si consideri il caso di una cittadina italiana che si è trasferita all’estero, dove svolge un’attività lavorativa in smartworking, e ha mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta. Tale contribuente, anche qualora avesse trasferito all’estero il suo domicilio e la sua dimora abituale, continuerà a qualificarsi come residente in Italia in ragione del requisito anagrafico, per cui dovrà sottoporre a tassazione tutti i suoi redditi nello Stato italiano, salvo il disposto della normativa convenzionale qualora applicabile (si veda, nel prosieguo, par. 4.1).
Analogamente, il cittadino italiano iscritto all’AIRE per la maggior parte del periodo di imposta, che abbia sottoscritto un contratto di lavoro con un datore estero nel quale sia indicata come sede ordinaria di lavoro il Paese risultante dall’iscrizione all’AIRE (o altro Stato estero), potrà considerarsi fiscalmente residente in Italia qualora vi mantenga la dimora abituale, dalla quale svolga la prestazione lavorativa con modalità agile.
Tali principi sono stati coerentemente applicati nella prassi più recente, maturata a seguito dell’emergenza pandemica.
A tal riguardo si rinvia, tra le altre, alla risposta a interpello n. 458/2021, resa a fronte di un quesito riguardante il trattamento fiscale da applicare alle retribuzioni da lavoro dipendente erogate a soggetti non residenti che a causa dell’emergenza hanno svolto, per la maggior parte del periodo d’imposta, l’attività lavorativa in Italia, in smartworking, invece che nel Paese estero.
La scrivente ha dapprima ribadito che l’attività di lavoro dipendente è esercitata nel luogo ove il dipendente è fisicamente presente mentre svolge il lavoro a fronte del quale gli è corrisposto il reddito, per poi precisare che una persona fisica iscritta all’AIRE e rientrata in Italia unicamente a seguito dell’emergenza Covid-19 è considerata fiscalmente residente in Italia secondo le vigenti disposizioni interne, in quanto ha il domicilio nel nostro Paese per la maggior parte del periodo d’imposta.
Ancora, nella risposta a interpello n. 626/2021 è stato chiarito che il reddito percepito da una cittadina italiana iscritta all’AIRE a fronte di un’attività di lavoro svolta in smartworking dall’Italia alle dipendenze di una società estera, è imponibile, secondo il dettato della normativa interna, nel luogo di prestazione dell’attività lavorativa, salvo il disposto della normativa convenzionale qualora applicabile (si veda, nel prosieguo, par. 4.2.1).
Del pari, una persona che si è cancellata dalle anagrafi della popolazione residente in Italia e si è trasferita in uno degli Stati o territori individuati nel decreto del Ministro delle Finanze del 4 maggio 1999 per svolgere un’attività di lavoro da remoto per un datore di lavoro localizzato in un terzo Stato, salvo prova contraria, continuerà ad essere considerata residente e soggetta a tassazione in Italia per tutti i suoi redditi.
Coerentemente non si considera assoggettabile ad imposizione il soggetto non residente in Italia (in quanto non integra alcuno dei presupposti di cui all’articolo 2 del TUIR) che dal suo Paese di residenza rende le prestazioni per un datore di lavoro italiano. In tal caso, il lavoratore continua a mantenere la residenza all’estero a prescindere dalla sede in Italia del datore di lavoro.
- Regimi speciali applicabili in caso di svolgimento dell’attività lavorativa in Italia
Al precedente paragrafo 1.2 viene chiarito che, a fronte dell’incremento, negli ultimi anni, dell’impiego di forme di lavoro definite “agili” che ha coinvolto imprese, professionisti e comparto pubblico, non sono state apportate modifiche alla normativa interna che abbiano inciso sulle regole di determinazione della residenza delle persone fisiche a fini fiscali. Continuano, pertanto, ad applicarsi le disposizioni di cui all’articolo 2 del TUIR e, al riguardo, nessuna valenza rettificativa va ascritta alla modalità con la quale viene prestata l’attività lavorativa (i.e. lavoro da remoto o smartworking).
Tale assunto rileva anche ai fini dell’applicazione dei regimi agevolativi rivolti alle persone fisiche che trasferiscono la propria residenza fiscale in Italia per svolgere un’attività lavorativa prevalentemente nel territorio italiano, disciplinati dall’articolo 16 del decreto legislativo 14 settembre 2015, n. 147 (c.d. «regime speciale per lavoratori impatriati») nonché dall’articolo 44 del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122 («regime speciale per docenti e ricercatori»).
Chiarimenti in ordine all’applicazione dei predetti regimi sono stati forniti con la circolare 23 maggio 2017, n. 17/E, con la circolare 28 dicembre 2020, n. 33/E e con la circolare 25 maggio 2022, n. 17/E.
Prima di approfondire separatamente i due regimi, va rilevato che entrambi presuppongono il trasferimento della residenza in Italia da parte del soggetto che ne fruisce, ossia l’instaurazione di un collegamento sostanziale con il territorio dello Stato, che implichi un’interazione effettiva con la realtà italiana. Inoltre, è altresì necessario che prima del trasferimento in Italia la persona fisica abbia mantenuto la residenza fiscale all’estero per un periodo di tempo minimo, variabile a seconda dell’agevolazione interessata.
In particolare, nell’individuare i soggetti che possono beneficiare dei predetti regimi agevolativi, le disposizioni applicabili richiedono espressamente il trasferimento della residenza in Italia, ai sensi del citato articolo 2 del TUIR, rilevando a tal riguardo la nozione di residenza applicabile ai fini reddituali.
L’accesso ai regimi agevolativi è consentito, altresì, alle persone fisiche in grado di superare la presunzione di residenza in Italia di cui al comma 2-bis del medesimo articolo 2 del TUIR (cfr. circolare n. 17/E del 2017).
In particolare, si osserva che l’articolo 16 del decreto legislativo n. 147 del 2015, prevede, al comma 1, che «I redditi di lavoro dipendente, i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente e i redditi di lavoro autonomo prodotti in Italia da lavoratori che trasferiscono la residenza nel territorio dello Stato ai sensi dell’articolo 2 del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, concorrono alla formazione del reddito complessivo limitatamente al 30 per cento del loro ammontare al ricorrere delle seguenti condizioni:
- a) i lavoratori non sono stati residenti in Italia nei due periodi di imposta precedenti il predetto trasferimento e si impegnano a risiedere in Italia per almeno due anni;
- b) l’attività lavorativa è prestata prevalentemente nel territorio italiano».
L’accesso a detto regime speciale, ai sensi del successivo comma 2, è consentito anche ai cittadini dell’Unione europea o di uno Stato extra UE con il quale risulti in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni o un accordo sullo scambio di informazioni in materia fiscale, a condizione che:
- a) siano in possesso di un titolo di laurea e abbiano svolto «continuativamente» un’attività di lavoro dipendente, di lavoro autonomo o di impresa fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più,
ovvero
- b) abbiano svolto «continuativamente» un’attività di studio fuori dall’Italia negli ultimi 24 mesi o più, conseguendo un titolo di laurea o una «specializzazione post lauream».
Secondo quanto previsto dal successivo comma 3 del citato articolo 16, detto regime è applicabile in via temporanea, a partire dal periodo di imposta in cui il lavoratore trasferisce la residenza fiscale in Italia e per i successivi periodi di imposta agevolabili, relativamente ai soli redditi che si considerano «prodotti in Italia». Tale previsione è in linea con la finalità delle norme, tese ad agevolare i soggetti che si trasferiscono in Italia per svolgervi la loro attività e, in particolare, con il tenore letterale del citato articolo 16 – norma di carattere generale per l’ampiezza dei destinatari ai quali si rivolge – in base al quale sono agevolabili i redditi prodotti in Italia. Per individuare tali redditi si rinvia ai criteri di collegamento con il territorio dello Stato previsti dall’articolo 23 del TUIR, il quale considera prodotti in Italia i redditi di lavoro dipendente se prestati nel territorio dello Stato, anche se remunerati da un soggetto estero. In linea generale, quindi, l’esenzione non spetta per i redditi derivanti da attività di lavoro prestata fuori dai confini dello Stato (cfr. circolare n. 17/E del 2017).
In definitiva, può accedere al «regime speciale per lavoratori impatriati» il soggetto che trasferisce la propria residenza in Italia, pur continuando a lavorare in smartworking alle dipendenze di un datore di lavoro estero, a partire dal periodo d’imposta in cui avviene il trasferimento in Italia.
Al contrario, non potrà continuare a fruire dell’agevolazione in esame il soggetto che, trasferitosi a lavorare in Italia, successivamente traslochi all’estero pur continuando a svolgere dalla nuova località la propria prestazione lavorativa per il medesimo datore di lavoro italiano in modalità smartworking, in quanto in tal caso i redditi si considerano prodotti fuori dal territorio italiano.
Il regime speciale per docenti e ricercatori è, invece, disciplinato dal citato articolo 44 del decreto-legge n. 78 del 2010, ai sensi del quale «Ai fini delle imposte sui redditi è escluso dalla formazione del reddito di lavoro dipendente o autonomo il novanta per cento degli emolumenti percepiti dai docenti e dai ricercatori che, in possesso di titolo di studio universitario o equiparato e non occasionalmente residenti all’estero, abbiano svolto documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi e che vengono a svolgere la loro attività in Italia, acquisendo conseguentemente la residenza fiscale nel territorio dello Stato».
Ai fini dell’applicazione di questa agevolazione è richiesto che sussista un collegamento tra il trasferimento della residenza in Italia del docente o del ricercatore e lo svolgimento dell’attività produttiva del reddito agevolabile. La verifica di detto collegamento risponde alla ratio della norma di agevolare tutti i residenti all’estero, sia italiani che stranieri, i quali per le loro particolari conoscenze scientifiche possono favorire lo sviluppo della ricerca e la diffusione del sapere in Italia, trasferendovi il know how acquisito attraverso l’attività svolta all’estero (cfr. circolare n. 17/E del 2017). Da ciò deriva che, contrariamente ai chiarimenti forniti per il regime impatriati, un docente o un ricercatore trasferitosi in Italia che intrattenga un rapporto di lavoro con un Ente o con una Università situata in uno Stato estero, per cui svolge la propria attività di docenza o ricerca in modalità smartworking non potrà beneficiare dell’agevolazione in commento per i relativi redditi in quanto non sussiste un collegamento tra il trasferimento in Italia e lo svolgimento di una attività di docenza e/o ricerca nel territorio dello Stato.
- I trasferimenti fittizi di residenza all’estero
La necessità di fornire chiarimenti interpretativi in relazione a fattispecie connotate dalla prestazione di attività lavorativa in modalità agile è strettamente connessa all’esigenza di contrastare casi di residenze all’estero non genuine.
Seppur il fenomeno dei trasferimenti fittizi di residenza è risalente, a seguito della diffusione di modalità di lavoro agile esso risulta ulteriormente acuito, in quanto la modalità di prestazione lavorativa a distanza rende meno immediata l’individuazione del luogo di presenza fisica del lavoratore nel corso dell’anno.
Inoltre, sono stati riscontrati fenomeni nuovi, come i casi di persone che in epoca pre-pandemica avevano trasferito la residenza all’estero (anche ai fini anagrafici) e, rientrate in Italia durante l’emergenza sanitaria, sono rimaste a lavorare in modalità agile nel nostro Paese anche dopo la cessazione dello stato di crisi, omettendo, però, di rettificare il dato formale dell’iscrizione anagrafica.
Al riguardo si osserva che la circolare 20 giugno 2022, n. 21, al paragrafo 1.5.2, ribadisce che “La fittizia allocazione all’estero della residenza fiscale continua ad essere oggetto di specifica analisi investigativa, sfruttando, in modo mirato e sistematico, le informazioni disponibili nelle banche dati in uso e i dati di fonte estera, anche di natura finanziaria, derivanti in particolare dallo scambio automatico, quali, inter alia, le informazioni pervenute tramite il Common Reporting Standard (CRS). In merito, è previsto un costante monitoraggio dei soggetti (AIRE), sviluppando nuovi dispositivi di contrasto del fenomeno illecito mediante nuove e più avanzate forme di analisi di rischio e valorizzando al contempo dati esterni detenuti, inter alia, dai Comuni con i quali l’Agenzia stipula appositi protocolli operativi”.
Le criticità derivanti dalle residenze estere fittizie sono state ben evidenziate già nella citata circolare ministeriale del 2 dicembre 1997, n. 304 (risalente ma ancora attuale nelle indicazioni rese), in cui è affermata la necessità di “dare impulso ad attività di tipo investigativo e di “intelligence” che consentano di individuare i casi in cui il trasferimento della residenza anagrafica rappresenta un facile espediente posto in essere da cittadini italiani che di fatto hanno mantenuto la residenza o il domicilio in Italia”.
La circolare n. 304 rileva, altresì, come in presenza del requisito formale della cancellazione anagrafica (con contestuale iscrizione all’AIRE), l’indagine deve concentrarsi sulla verifica dei criteri alternativi di residenza e domicilio, da intendersi secondo l’approccio qualitativo sopra ricordato.
L’obiettivo da perseguire attraverso le indagini è “l’accertamento della simulazione di un soggetto che: – nonostante le risultanze anagrafiche attestanti il trasferimento della residenza all’estero, mantenga il centro dei propri interessi rilevanti in Italia”. In altri termini, occorre che “dalle indagini scaturisca una valutazione d’insieme dei molteplici rapporti che il soggetto intrattiene nel nostro Paese”.
Da quanto precede, quindi, emerge che il dato formale dell’iscrizione all’AIRE e la circostanza di prestare l’attività lavorativa parzialmente o integralmente da remoto per un soggetto estero non sono di per sé elementi sufficienti a escludere la residenza fiscale in Italia qualora, da una valutazione complessiva dei rapporti economici, patrimoniali e affettivi, risultino integrati i più volte citati criteri di individuazione della residenza fiscale nel nostro Paese.
Del pari, lo svolgimento a distanza dell’attività lavorativa in un Paese diverso da quello di stabilimento dell’operatore economico non esclude la possibilità che tale attività venga valutata sotto il profilo sostanziale.
- Applicazione delle Convenzioni contro le doppie imposizioni
4.1 La residenza fiscale nella normativa convenzionale
La normativa interna deve essere coordinata con le disposizioni contenute nelle Convenzioni contro le doppie imposizioni stipulate dall’Italia con i singoli Stati esteri, la cui prevalenza sul diritto interno è pacificamente riconosciuta nell’ordinamento italiano e, in ambito tributario, sancita dall’articolo 169 del TUIR e dall’articolo 75 del D.P.R. del 29 settembre 1973, n. 600, oltre ad essere stata affermata dalla giurisprudenza costituzionale (si vedano, sentenze della Corte Cost. 26 novembre 2009, n. 311, e 24 ottobre 2007 n. 348 e n. 349).
Con riferimento alla residenza fiscale, viene in rilievo l’articolo 4 del Modello di Convenzione OCSE contro le doppie imposizioni, sostanzialmente mutuata dai Trattati internazionali conclusi dall’Italia.
Il paragrafo 1 della disposizione convenzionale citata stabilisce che “ai fini della presente Convenzione, l’espressione “residente in uno stato contraente” designa ogni persona che, in virtù della legislazione di detto Stato, è ivi assoggettata ad imposta a motivo del suo domicilio, residenza, sede di direzione o di ogni altro criterio di natura analoga. Tuttavia, tale espressione non comprende le persone che sono assoggettate ad imposta in questo Stato soltanto per il reddito che esse ricavano da fonti situate in detto Stato”.
Per l’individuazione della residenza fiscale si rimanda, dunque, innanzitutto alla definizione adottata nella legislazione degli Stati contraenti.
Solo ove le normative domestiche degli Stati contraenti entrino in conflitto, qualificando entrambe la persona come residente, il successivo paragrafo 2 interviene stabilendo che la fattispecie debba essere risolta con l’attribuzione della residenza ad uno solo dei due Paesi, mediante l’applicazione, secondo un criterio gerarchico, di specifiche regole (c.d. tie breaker rules).
Questo potrebbe verificarsi, ad esempio, nel caso in cui un soggetto acquisisca la residenza del Paese in cui è contrattualmente fissata la propria sede lavorativa, ma mantenga, in virtù di quanto sopra precisato, la dimora abituale o il domicilio in Italia, anche in virtù della possibilità di svolgere la prestazione lavorativa in tutto o in parte con modalità agili.
In siffatte circostanze, le regole convenzionali fanno prevalere il criterio dell’abitazione permanente cui seguono, in via subordinata, il centro degli interessi vitali, il soggiorno abituale e la nazionalità del contribuente.
Riguardo alla nozione di abitazione permanente, nella risposta a interpello n. 173/2023 è stato operato un rinvio al Commentario all’articolo 4, paragrafo 2, del Modello OCSE, in cui si chiarisce, ai punti 12 e 13, la nozione di abitazione che una persona fisica mantiene ed organizza per un utilizzo permanente. Si tratta, dunque, di un immobile attrezzato e reso idoneo ad una lunga permanenza nello stesso. A prescindere dalla tipologia dell’abitazione e dal titolo giuridico in base al quale se ne dispone, ciò che rileva è la circostanza che la persona fisica abbia predisposto l’abitazione per utilizzarla in modo duraturo e continuo e non occasionalmente ai fini di una breve permanenza (come, ad esempio, per un viaggio di piacere, un viaggio di affari o per fini di studio etc.).
Inoltre, come chiarito nella risposta n. 294/2019, quando la persona fisica dispone di un’abitazione permanente in entrambi gli Stati contraenti, sarà considerata residente, in virtù del criterio del centro degli interessi vitali, nel Paese nel quale le sue relazioni personali ed economiche sono più strette. Ove non sia possibile individuare la residenza del contribuente in base ai due criteri sopra citati, una persona fisica sarà considerata residente dello Stato in cui soggiorna abitualmente (criterio della dimora abituale). Quando i primi tre criteri non sono dirimenti, il contribuente sarà considerato residente dello Stato contraente la Convenzione di cui possiede la nazionalità. Quando, infine, una persona fisica ha la nazionalità di entrambi i Paesi o di nessuno di essi, gli Stati contraenti la Convenzione risolveranno la questione di comune accordo.
L’applicazione della normativa convenzionale presenta particolare rilevanza proprio per le implicazioni sullo smartworking, tenuto conto della possibilità di lavorare per un soggetto stabilito in uno Stato estero, partner negoziale di un Trattato, senza per questo modificare la propria residenza.
A titolo esemplificativo, si rinvia al caso suesposto del cittadino italiano che si è trasferito all’estero, dove svolge un’attività lavorativa in smartworking, e che ha mantenuto l’iscrizione nelle anagrafi della popolazione residente in Italia per la maggior parte del periodo d’imposta. Si ipotizzi che il contribuente abbia venduto l’appartamento che manteneva in Italia e acquistato un immobile nello Stato estero come sua abitazione permanente. Si ipotizzi, altresì, che la medesima persona sia iscritta anche all’anagrafe dello Stato di trasferimento e che, pertanto, tale Stato la consideri residente in base alla sua normativa interna. Per dirimere il conflitto di residenza trovano applicazione le tie breaker rules stabilite nel Trattato tra l’Italia e lo Stato estero. In particolare, l’abitazione permanente in quest’ultimo, dove il lavoratore svolge smartworking, può configurare il criterio dirimente ai fini della determinazione della residenza.
In un differente caso, nella risposta ad interpello n. 127/2023, l’Agenzia ha chiarito che il soggetto iscritto all’AIRE, che rientra in Italia, presso l’abitazione dei genitori, a svolgere da remoto (in smartworking) un’attività lavorativa alle dipendenze di un datore di lavoro inglese, trasferendo nel territorio dello Stato la propria residenza (ai sensi del codice civile) e la propria abitazione permanente (rilevante ai fini dell’articolo 4, paragrafo 2, della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Regno Unito), per la maggior parte del periodo d’imposta, si qualifica fiscalmente residente in Italia. Pertanto, i redditi erogati dal datore di lavoro del Regno Unito, a fronte dell’attività lavorativa svolta nel nostro Paese in modalità smartworking, devono essere assoggettati ad imposizione esclusiva in Italia, ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della Convenzione tra Italia e Regno Unito (in quanto il contribuente risulta residente in Italia e l’attività lavorativa viene svolta nel nostro Paese).
Va rimarcato che, in assenza di conflitto con le normative interne di Stati che hanno concluso una Convenzione con l’Italia, oppure in assenza di una specifica Convenzione contro le doppie imposizioni, la disposizione di riferimento per la determinazione della residenza fiscale resta unicamente il citato articolo 2 del TUIR.
4.2 Applicazione delle Convenzioni allo smartworking
Come anticipato, le nuove modalità di lavoro agile sono per lo più connotate da una parziale o totale recisione dei vincoli di presenza fisica del prestatore nel territorio di un determinato Stato per lo svolgimento dell’attività.
Questo nuovo modello organizzativo necessita di alcuni chiarimenti di coordinamento con le disposizioni convenzionali che ripartiscono la potestà impositiva in relazione a determinati redditi, con particolare riferimento agli articoli del Modello OCSE: 15 (Redditi di lavoro dipendente), 7 (Utili d’impresa), 5 (Stabile organizzazione), e 14 (Professioni Indipendenti) (NOTA 2) come recepiti nei Trattati conclusi dall’Italia.
4.2.1 Redditi di lavoro dipendente
L’articolo 15 del Modello OCSE, sostanzialmente recepito nelle Convenzioni negoziate dall’Italia, prevede, al paragrafo 1, la tassazione esclusiva dei redditi da lavoro subordinato nello Stato di residenza del contribuente, a meno che tale attività lavorativa non venga svolta nell’altro Stato contraente; in tale ultima ipotesi i predetti redditi devono essere assoggettati ad imposizione concorrente in entrambi i Paesi.
Le disposizioni contenute nel paragrafo 1 del citato articolo 15 stabiliscono, in primo luogo, la tassazione esclusiva dei redditi di lavoro dipendente nello Stato di residenza quando l’attività è ivi svolta. Nel caso in cui lo Stato di residenza e quello della fonte (ossia lo Stato in cui è stata svolta l’attività lavorativa che ha prodotto il reddito) non coincidano, si applica un regime di imposizione concorrente.
Si osserva, poi, che, ai sensi del paragrafo 2 dell’articolo 15 del Modello, viene ripristinata la tassazione esclusiva nello Stato di residenza anche quando l’attività lavorativa è svolta nello Stato della fonte, ove ricorrano congiuntamente tre condizioni:
– il beneficiario dei redditi di lavoro dipendente soggiorna nello Stato della fonte per periodi che non oltrepassano in totale i 183 giorni nell’anno fiscale considerato;
– le remunerazioni sono pagate da o a nome di un datore di lavoro che non è residente nello Stato della fonte;
– l’onere delle remunerazioni non è sostenuto da una stabile organizzazione o da una base fissa che il datore di lavoro ha nello Stato della fonte.
In applicazione delle disposizioni convenzionali, quindi, un soggetto non residente che svolge la sua attività di lavoro dipendente in Italia è assoggettato a imposizione nel nostro Paese in relazione ai redditi imputabili all’attività prestata nel territorio dello Stato. Tale conclusione non è inficiata dalle modalità di svolgimento della prestazione. In altri termini, anche qualora questa venga svolta da remoto per un datore di lavoro estero, si considera comunque prestata in Italia, con conseguente riconoscimento della potestà impositiva italiana.
Infatti, come precisato nel paragrafo 1 del Commentario all’articolo 15 del Modello OCSE, “Paragraph 1 establishes the general rule as to the taxation of income from employment (other than pensions), namely, that such income is taxable in the State where the employment is actually exercised. […] Employment is exercised in the place where the employee is physically present when performing the activities for which the employment income is paid. One consequence of this would be that a resident of a Contracting State who derived remuneration, in respect of an employment, from sources in the other State could not be taxed in that other State in respect of that remuneration merely because the results of this work were exploited in that other State”.
In sintesi, il lavoro dipendente si considera svolto nel luogo in cui il lavoratore è fisicamente presente quando svolge la prestazione per cui è remunerato, indipendentemente dalla circostanza che la manifestazione di tale lavoro abbia effetti nell’altro Stato contraente.
La disposizione convenzionale è, inoltre, coerente con l’articolo 23, comma 1, lett. c), del TUIR che considera prodotti in Italia “i redditi di lavoro dipendente prestato nel territorio dello Stato”.
Esemplificando, si ipotizzi il caso di un cittadino italiano che prima della pandemia da Covid-19 sia stato assunto da un’impresa stabilita nello Stato X (con cui l’Italia ha in vigore una Convenzione contro le doppie imposizioni), dove ha provveduto a trasferire la residenza. In occasione dell’emergenza sanitaria, il lavoratore ha iniziato a fruire del lavoro agile, che ha svolto in Italia per sua scelta o per l’impossibilità di rientrare nello Stato X a causa delle limitazioni alla circolazione dettate da ragioni sanitarie. Cessate le restrizioni alla circolazione, il lavoratore continua a svolgere comunque in Italia le sue prestazioni in smartworking.
In tal caso, prescindendo da qualunque valutazione sulla effettiva residenza del lavoratore, i redditi da quest’ultimo percepiti per il lavoro svolto da remoto nel territorio dello Stato, sia durante l’emergenza pandemica sia successivamente alla cessazione della crisi, sono imponibili in Italia.
Non assume, quindi, rilevanza né la circostanza che, in assenza di accordi di smartworking, il lavoratore si dovrebbe recare fisicamente presso i locali dell’impresa nello Stato X, né l’eventuale origine forzosa dello stabilimento a causa delle restrizioni alla circolazione.
Tale conclusione trova riscontro nella risposta ad interpello n. 50/2023, in cui è stato chiarito che il reddito da lavoro dipendente, erogato ad un soggetto fiscalmente residente in Italia da parte di un datore di lavoro irlandese, a fronte di una attività lavorativa svolta in parte dall’Italia, in modalità smartworking, e in parte in Irlanda, presso la sede della società, deve, ai sensi dell’articolo 14 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia ed Irlanda, essere assoggettato a tassazione esclusiva in Italia (Stato di residenza), per la parte derivante dall’attività svolta in smartworking in Italia, ed a tassazione concorrente, sia in Italia (Stato di residenza) che in Irlanda (Stato di svolgimento dell’attività), per la parte derivante dall’attività svolta in Irlanda.
In senso analogo, nella risposta a interpello n. 626/2021, in cui, come anticipato al par. 1.2, è stato esaminato il caso di un soggetto non residente percettore di redditi a fronte di un’attività di lavoro dipendente svolta in smartworking dall’Italia, l’Agenzia ha ritenuto che ricorra una imposizione concorrente in Italia (Stato di prestazione dell’attività lavorativa) e in Lussemburgo (Stato di residenza), ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 1, della Convenzione contro le doppie imposizioni in vigore tra i due Stati, con riconoscimento del credito di imposta da parte del Lussemburgo.
4.2.2 Lo smartworking nel periodo emergenziale causato dall’epidemia da Covid-19
Il Segretariato dell’OCSE, con la Guidance del 3 aprile 2020, successivamente aggiornata il 21 gennaio 2021, ha pubblicato i risultati di un’analisi sull’impatto della crisi da Covid-19 sull’applicazione delle Convenzioni in ambito tributario, in cui ha focalizzato l’attenzione sugli effetti che le misure sanitarie restrittive, adottate dai Paesi a seguito della pandemia, hanno avuto sui trattati internazionali.
Nello specifico, l’analisi del Segretariato riguarda le conseguenze fiscali delle misure di contrasto alla pandemia rispetto alla residenza (di persone fisiche e giuridiche), ai redditi di lavoro e alla configurabilità di una stabile organizzazione.
In considerazione dell’eccezionalità e della temporaneità della crisi, il documento propone un approccio volto alla “sterilizzazione” delle modifiche organizzative resesi necessarie a causa della pandemia.
Nel documento pubblicato dall’OCSE è stato precisato che l’analisi ivi contenuta rappresenta il punto di vista del Segretariato sull’interpretazione delle disposizioni convenzionali, riconoscendo ad ogni giurisdizione la possibilità di adottare proprie indicazioni per fornire certezza fiscale ai contribuenti.
Le predette indicazioni, inoltre, riguardano unicamente i canoni ermeneutici delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni e, pertanto, non sono rilevanti al fine di interpretare la normativa interna.
Alcuni Paesi hanno adottato misure, amministrative o legislative, in linea con quelle prospettate dal Segretariato, il cui elenco è rinvenibile sul sito OCSE.
Con riferimento all’Italia, la competente autorità fiscale ha tenuto conto dell’analisi svolta dal Segretariato dell’OCSE concludendo Accordi amministrativi interpretativi delle disposizioni contenute nell’articolo 15 (lavoro subordinato) delle Convenzioni per evitare le doppie imposizioni, con i seguenti Stati:
– Austria: Accordo concluso il 24/26 giugno 2020, concernente i soli lavoratori frontalieri, ed applicabile alle attività lavorative svolte tra l’11 marzo 2020 e il 30 giugno 2022;
– Francia: Accordo concluso il 16/23 luglio 2020, concernente i lavoratori subordinati e i frontalieri, applicabile dal 12 marzo 2020 fino al 30 giugno 2022;
– Svizzera: Accordo concluso il 18/19 giugno 2020, concernente i lavoratori subordinati e frontalieri, applicabile dal 24 febbraio 2020 al 31 gennaio 2023. Per i soli lavoratori frontalieri rientranti nell’ambito dell’applicazione dell’Accordo e nei limiti del 40 per cento del tempo di lavoro, gli effetti del medesimo Accordo sono stati sostanzialmente estesi al 30 giugno 2023 dall’articolo 12 della legge 13 giugno 2023, n. 83. Inoltre, l’articolo 24, comma 5-ter, del decreto-legge 22 giugno 2023, n. 75, convertito in legge 10 agosto 2023 n. 112, ha previsto che le disposizioni di cui all’articolo 12 della legge 13 giugno 2023, n. 83, si applichino fino al 31 dicembre 2023 ai soli lavoratori frontalieri che, alla data del 31 marzo 2022, svolgevano la loro attività lavorativa in modalità di telelavoro (sul punto si rinvia alla Parte Seconda).
Proprio in relazione a tale ultimo Accordo, nella risposta ad interpello n. 55/2023, riguardante redditi da lavoro dipendente per l’annualità 2021, l’Agenzia ha chiarito che, ai fini dell’interpretazione dell’articolo 15, paragrafo 1, della Convenzione, in via eccezionale e provvisoria, i giorni di lavoro svolti a domicilio nello Stato di residenza del Contribuente a causa delle misure adottate per impedire la diffusione del Covid-19, alle dipendenze di un datore di lavoro situato nell’altro Stato contraente la Convenzione, devono essere considerati come giorni di lavoro svolti nello Stato in cui la persona avrebbe lavorato e ricevuto in corrispettivo il reddito di lavoro dipendente in assenza di tali misure.
Come rilevato nella risposta ad interpello n. 99/2023, l’analisi del Segretariato OCSE sull’impatto del Covid-19 sui Trattati è stata accolta dall’Italia unicamente nei limiti dei richiamati Accordi amministrativi con Austria, Francia e Svizzera; tali accordi non possono esplicare effetti nei riguardi di altri Stati.
Ad oggi, peraltro, con la dichiarata fine dello stato di pandemia, i menzionati Accordi internazionali hanno cessato di avere efficacia; pertanto, risultano applicabili le ordinarie disposizioni contenute nelle rispettive Convenzioni contro le doppie imposizioni ed accordi internazionali.
4.3 Stabile organizzazione e base fissa
Considerazioni analoghe a quelle svolte per i redditi da lavoro dipendente valgono anche ai fini del riconoscimento di una stabile organizzazione o una base fissa.
L’articolo 7 del Modello OCSE dispone che i redditi d’impresa siano tassati esclusivamente nello Stato di residenza, a meno che nell’altro Stato sussista una stabile organizzazione che l’articolo 5 definisce come una sede fissa attraverso cui l’impresa non residente svolge in tutto o in parte la sua attività.
L’articolo 14 stabilisce che i redditi da lavoro autonomo sono tassati esclusivamente nello Stato di residenza, salvo il caso in cui tali redditi siano imputabili a una base fissa che il professionista mantiene nell’altro Stato contraente.
Sulla base di quanto emerge nel Commentario al Modello OCSE (NOTA 3), il concetto di “base fissa” non differisce da quello di “stabile organizzazione”, né ai fini della configurabilità, né con riguardo ai criteri di attribuzione dei redditi.
Pertanto, secondo i chiarimenti resi nel Commentario all’articolo 5, i presupposti di esistenza di una stabile organizzazione (o base fissa) possono sintetizzarsi in:
1) esistenza della sede d’affari nella disponibilità dell’impresa o del professionista;
2) fissità spaziale e temporale della sede d’affari;
3) svolgimento dell’attività d’impresa o professionale in tutto o in parte per mezzo della sede fissa d’affari.
I requisiti suesposti si ritengono integrati anche nel caso di una persona fisica che svolge, nel territorio dello Stato, attività d’impresa o di lavoro autonomo da remoto.
Ad esempio, qualora un architetto che dispone di uno studio professionale nello Stato Z decida di trascorrere parte dell’anno in Italia dove continua a elaborare progetti che poi spedisce tramite e-mail ai committenti con i quali effettua videochiamate, occorre valutare l’esistenza di una base fissa.
In buona sostanza, come per i redditi di lavoro dipendente, non si ritiene che la modalità agile alteri i tradizionali criteri di attribuzione della potestà impositiva dettati dalle previsioni convenzionali.
Tali conclusioni sono coerenti con i criteri di territorialità dettati, a livello interno, dall’articolo 23 del TUIR che considera prodotti in Italia:
– i redditi di lavoro autonomo derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato (comma 1, lettera d);
– i redditi d’impresa derivanti da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni (comma 1, lettera e).
I chiarimenti resi, riguardanti la configurabilità di una stabile organizzazione in Italia, non incidono sulla presunzione di indipendenza di cui all’articolo 162, comma 7-ter, del TUIR.
Come noto, infatti, la legge 29 dicembre 2022, n. 197 (legge di bilancio 2023) ha introdotto nell’ordinamento italiano la cosiddetta Investment Management Exemption (la cui trattazione sarà oggetto di un altro specifico documento di prassi). Nello specifico, l’articolo 162, comma 7-ter, del TUIR stabilisce che si considera indipendente dal veicolo di investimento non residente, con conseguente esclusione di una stabile organizzazione nel territorio dello Stato, il soggetto, residente o non residente anche operante tramite propria stabile organizzazione nel territorio dello Stato, che, in nome o per conto del veicolo di investimento non residente o di sue controllate, dirette o indirette, e anche se con poteri discrezionali, abitualmente concluda contratti di acquisto, di vendita o di negoziazione, o comunque contribuisca, anche tramite operazioni preliminari o accessorie, all’acquisto, alla vendita o alla negoziazione di strumenti finanziari, anche derivati e comprese le partecipazioni al capitale o al patrimonio, e di crediti.
La presunzione di cui al comma 7-ter opera al ricorrere delle condizioni di cui al successivo comma 7-quater.
Si ribadisce, in conclusione, che, ai fini dell’applicazione della presunzione introdotta dal legislatore al comma 7-ter dell’articolo 162 del TUIR, non sono rilevanti i chiarimenti forniti nella presente circolare.